Pubblicato il: 30 March 2016 alle 5:16 pm
Due ricette vegetariane della tradizione siciliana, con una contaminazione mantovana.
Oggi è molto di voga il mangiare vegetariano o quello vegano. Peraltro la cucina vegetariana, e fors’anche quella vegana trovano illustri antecedenti in molte cucine povere della dieta mediterranea che facevano largo uso di legumi come fonte di proteine vegetali sostitutive di quelle animali, spesso inaccessibili, per i costi, alla gran parte della popolazione. Così oggi propongo due ricette fatte esclusivamente con ingredienti vegetali, che possono costituire la base per un pranzo o una cena con due portate principali.
Il primo piatto è il macco di fave, ovvero “u maccu” per antonomasia. Il termine è analogo a quello italiano di sbobba, che sembra avere origine dal termine bob, presente in molte lingue dell’Europa orientale, slave, o ungheresi a indicare talvolta genericamente i legumi, talaltra nello specifico i fagioli.
Maccu o sbobba indica una minestra di legumi in cui si è persa la consistenza delle parti, nel senso che esse sono diventate una crema, si son fuse l’una nell’altra. Per questo è necessario che la cottura avvenga a fuoco forte, con molta acqua, per consentire alle parti di perdere consistenza, sbattendosi – se mi è consentita l’espressione non propriamente elegante – come una coppia di amanti furiosamente presi dal desiderio di possedersi reciprocamente.
La caratteristica di cibo povero, anzi poverissimo, del macco è segnalata dall’espressione di duolo e lagnanza che si sentiva spesso ripetere a Catania e che suonava così: “a nanna fici u maccu e a mia non mi nni desi” (la nonna ha fatto il macco e non me ne ha dato) a segnalare la punizione per un’infrazione talmente grave da essere privati anche di un cibo poverissimo. E la privazione non riguardava soltanto un pasto, perché con il macco rimasto si faceva anche cena, e talvolta addirittura la prima colazione.
Il macco si prepara con fave secche decorticate, messe a mollo la sera prima e cotte il giorno dopo con abbondante cipolla e finocchietto selvatico e molta acqua.
A fine cottura, quando le fave e la cipolla sono completamente disciolte, ma ancora la minestra è abbastanza liquida, si aggiunge della pasta corta, che deve cuocere anch’essa fino a perdere la consistenza al dente e amalgamarsi con il tutto.
Si aggiunge poi a freddo olio e una spruzzata di pepe nero e si consuma caldo.
È una zuppa caratterizzata da una consistenza morbida, dovuta al fatto che gli amidi della pasta si fondono con la crema di legumi e cipolle. Se si vuole, si possono fare delle variazioni, aggiungendo delle patate tagliate a dadini sin dall’inizio della cottura, a sostituire o integrare la pasta.
Questa ricetta era disponibile dalla primavera all’autunno, periodo dell’anno in cui si poteva trovare il finocchietto selvatico. In primavera peraltro il macco si faceva anche con le fave fresche. In inverno invece al posto del finocchietto si usava il sedano e si aggiungeva un po’ di salsa di pomodoro, quella per intenderci fatta in casa durante l’estate, imbottigliata nelle bottiglie di birra con tappo corona, la cui apertura spesso provocava, per l’eccesso di acidità non corretta, getti di geyser che disegnavano sulle pareti della cucina murales ante litteram. A evitare questi rischi oggi soccorrono le passate di pomodoro di produzione industriale, ma io preferisco farlo, come nella foto, aggiungendo pezzetti di pomodori secchi ad inizio cottura e non aggiungendo sale. Trovo che il sapore forte del pomodoro secco si armonizza bene con il dolce delle cipolle e l’aroma delle fave secche.
Il macco che non si consumava a pranzo veniva versato, ancora caldo, in piatti piani dove, raffreddandosi, acquistava una consistenza che la sera consentiva di tagliarlo a fette e di passarlo in padella con dell’olio per friggerlo e mangiare così frittelle di macco croccanti, che potevano essere gustate anche a colazione.
Il secondo piatto mi fa ricordare una cena esclusivamente a base di funghi che feci a metà degli anni settanta, grazie ad amici che avevano raccolto sull’Etna un’immane quantità di funghi di ben sei diverse qualità. Fra essi le mazze di tamburo, con i cui gambi preparai un delicato consommé di funghi e le cui cappelle consumammo fritte.
Nella foto di questo secondo piatto viene appunto presentato un fritto di funghi prataioli e di mazze di tamburo, accompagnati da una crema di zucca mantovana.
Potete friggere i funghi soltanto infarinandoli oppure preparandoli come le cotolette alla milanese, ma in questo caso infrangete l’obbligo di attenervi soltanto a ingredienti non animali.
In quanto alla crema di zucca io la preparo nel modo seguente.
Con poco olio d’oliva metto a soffriggere la zucca gialla tagliata a dadini con abbondante cipolla, poi quando si è in parte disfatta, aggiungo un po’ d’acqua e pochissimo sale e lascio cuocere fino a quando si è disfatta del tutto, rimescolando continuamente e facendo attenzione che non si attacchi (meglio un tegame antiaderente).
A fine cottura aggiungo qualche biscotto amaretto sbriciolato e un cucchiaino di mostarda mantovana (in alternativa mostarda di Cremona).
Faccio raffreddare, poi frullo il tutto con il frullatore a immersione, facendo in modo da ottenere una crema densa, sulla quale accomodare parte dei funghi fritti e guarnire il piatto.